La domanda chiave per chi fa un percorso di formazione in arteterapia è:”che cos’è per me l’arteterapia”?
Una domanda da un milione di dollari, per quanto mi riguarda non so, anzi non credo proprio di avere ancora la risposta, nè so se mai l’avrò. Una risposta definitiva intendo.
Sono approdata all’arteterapia girando su internet con la sana ostinazione di trovare qualcosa che potesse ascoltare e dipanare la mia frustrazione sull’arte e le mie problematiche relazionali (tra me e me e tra me e il mondo).
Ho desiderato e ho trovato un luogo di espressione, di trasformazione. Ricordo ancora il primo workshop di quelli informativi. Ricordo ancora quella psicologa che rimase tutto il tempo seduta in un angolo, senza toccare un colore, un foglio, niente. Voleva solo guardare. Ricordo che mentre lavoravo alla mia immagine, sentii muoversi le acque del mar rosso e macigni alti come case. In quel momento mi resi conto che quella cosa riportava in vita lo scheletro di me che non sapevo nemmeno in quale armadio fosse nascosto.
Volevo tutto. Avevo fame.
Proprio questa fame ho nutrito da lì in poi, incontri di gruppo, incontri individuali, workshop, e poi la formazione. 5 anni tra una cosa e l’altra. Con quei soldi avrei potuto comprare un forno per ceramica, affittare un posto, prendere lezioni di disegno, di canto, di incisione, di cucito, e di tutte quelle cose che non ho fatto.
Eppure lo rifarei.
Ho lavorato con dei ragazzini scalmanati e dissestati tra i sei e gli otto anni. Ci cacciarono dal luogo in cui facevamo gli incontri settimanali, perchè ‘sporcavamo’. La cosa più bella fu una madre che mi ringraziò perché sua figlia, la più piccola del gruppo, aveva iniziato a disegnare. E io che pensavo che tutto quello non fosse poi niente di che, mi dovetti ricredere, dovetti parlare con la mia rigidità e chiederle di farsi da parte e anche IO dovetti farmi da parte. Ero un tramite, un canale. Appunto. Offrivo tempo e spazio e un corpo che facesse da cassa di risonanza a quei bambini, e che facesse da spogliatoio per le loro giacche con tasche piene di storie pesanti.
Ho frequentato un reparto pediatrico e ho incontrato non poche resistenze, tra ‘madriteresedicalcutta’ e genitori e figli induriti dalle malattie e dallo sconcerto di non poterne venire fuori. Ho imparato che bisogna aver pazienza, che le cose prendono pieghe improvvise e bisogna essere pronti a seguire chi ha bisogno e non essere saccenti riguardo i bisogni degli altri. Loro potrebbero aver bisogno solo di un sorso d’acqua o una briciola di pane. E poi non sfidare. La malattia e la sua rabbia. A meno che non si voglia essere investiti dal dolore e dalla frustrazione.
Ah e poi una cosa importantissima: dare alle cose il giusto valore simbolico. Per esempio, se ingenuamente ti chiedono di fare i ‘lavoretti’ su ‘halloween’ perchè siamo a fine ottobre, ricordati che halloween fa paura, che si parla di morti, e che siamo in un reparto di bambini e non tutti arriveranno a domani, forse. O comunque i loro genitori saranno preoccupati proprio di questo… che non muoiano.
A me è capitato davvero. Ingenuità di chi è all’inizio e di chi non ha ancora risolto le problematiche legate al proprio ruolo e alla propria identità e si lascia sopraffare dalle ‘madriteresedicalcutta’ piuttosto che dare ascolto a se stesso.
Poi un passaggio. Una ragazzina affetta da autismo… Durissima prova. Soprattutto con me stessa. Lei faceva sempre lo stesso disegno, io ripetevo il suo disegno e facevamo libri di disegni uguali e bellissimi. C’era di mezzo anche una piscina, e il costume. Se ci ripenso mi sale dentro un’emozione fortissima. una volta era arrabbiata, credo. In quell’ora era difficile distinguersi. Io euforicamente detti vita a quella rabbia su un foglio. Feci dei segni neri come una pioggia di chiodi. Lei si mise a piangere.
Ecco, ho fatto la cazzata, mi dissi. Ovviamente la consolai e cercai di riprendere con qualcosa di più familiare. Avevo proprio ‘rotto’ quel ritmo continuo e uguale delle lancette dell’orologio, probabilmente in modo brutale.
Sono passati tanti anni, quasi cinque per la precisione. Quel pomeriggio di rottura credo che abbia da dirmi ancora tante cose. Forse non è stata solo una cazzata. Forse era un modo diverso di…
Devo pensarci ancora.
Un lavoro bellissimo quello con gli anziani in centro diurno. Anziani vuol dire tante cose. Chi ha ancora lo spirito di vivere fino alla fine, chi ha rinunciato, chi si muove su una sedia a rotelle, chi fuma e gioca a carte e non ne vuole sapere niente, chi ti fa proposte di matrimonio o di fidanzamento, forse perchè vorrebbe sposare la tua giovinezza più che per amore. e poi c’è l’Alzheimer.
Di fronte ad una tale devastazione, ti viene fuori tanta tenerezza. Anche solo nel vedere che ogni settimana, sullo stesso foglio, la stessa persona scrive il suo nome, la sua data di nascita, con lo stesso colore. e poi fa un ghirigoro intorno a tutto il foglio, che sembra proprio il filo che piano piano sta perdendo. Una volta d’istinto le diedi un pezzo di stoffa. E lei partì a raccontare…
Certo quando si sta a contatto con gli anziani c’è sempre la morte che si infila così, tra un incontro e un altro, quando meno te l’aspetti, e si viene a prendere chi meno ti aspetti che se ne debba andare.
Così è successo. Difficile rinominarla questa morte anche se ce l’avevamo tutti sulla punta della lingua.
Per ora questa è stata la mia esperienza come arteterapeuta. Se una pulce vi salta all’orecchio e vi racconta che qui sembra che ci sia una dose di magia nell’aria quando si fa questo genere di cose, non datele retta. Non è vero. Non c’è magia.
Credo piuttosto che siano connessioni e unioni di puntini neri che poi ti mostrano l’immagine ‘nascosta’. Di fatto è tutto qui. davanti ai nostri occhi.
Ultima cosa. Non pretendo di essere stata esaustiva e chiara rispetto a cosa sia l’arteterapia e cosa faccia l’arteterapeuta. Credo però che sia fondamentale che ci sia qualcuno che offra uno spazio e un tempo per lasciare che accadano delle cose. E in tutto questo rimescolarsi di elementi e formarsi di nuove forme, credo sia fondamentale che ci sia qualcuno che offra anche il proprio sguardo silenzioso a chi si guarda nei propri occhi.
Ecco, meno chiara di così non potevo esserlo!
Se hai voglia di provare a fare un’esperienza con i materiali o di saperne di più puoi contattarmi via email: fabiana(at)microstorie.it.
Se la parola ‘terapia’ ti spaventa un po’, sappi che il luogo dell’ arteterapia è un luogo a nessun giudice è permesso di entrare e non c’è nessuna aspettativa su ciò che viene creato. Quasi tutte le persone con cui ho avuto l’onore e la possibilità di lavorare non avevano precedenti esperienze di arte. Non c’è nessuno che vuole nè può interpretare il tuo lavoro. Un lavoro è il risultato di un processo e il processo è esperienza di se.